venerdì 3 febbraio 2017

Biagio il vescovo goloso

Miracolo di San Biagio, attribuito a Marco Benefial 1684 - 1764


Oggi 3 febbraio, la tradizione cattolica ricorda San Biagio, Vescovo di Sebaste in Armenia e patrono della città lucana di Maratea. Invocato in tutta Italia contro le malattie della gola, è anche protettore degli agricoltori e dei tessitori.
Si sa poco della sua vita perché, così come per molti santi, gli Acta, ossia le cronache del suo martirio, affondano le radici nella leggenda e di conseguenza sono lacunose e contraddittorie. Vissuto in Armenia nella prima metà del IV secolo, Biagio, la cui etimologia latina significa balbuziente, fu probabilmente medico prima dell'ordinazione sacerdotale.
Quando si rifugiò in una grotta per sfuggire alle persecuzioni dell'imperatore Licinio nel 314 (la Legenda Aurea di Jacopo da Veragine parla invece di Diocleziano) gli animali accorrevano a portagli il cibo e, rappacificati tra loro, non se ne allontanavano se non avevano prima ricevuto la benedizione. Raggiunto dalle guardie del governatore, che cercavano fiere per i giochi nell'arena, fu riconosciuto come cristiano e arrestato.
Lungo la strada che lo conduceva al martirio a Sebaste, una donna, disperata perché il figlio stava soffocando a causa di una lisca di pesce conficcata in gola, implorò l'aiuto di Biagio. Il santo, non solo salvò il ragazzo, ma ottenne la salute per chiunque ne avesse invocato l'intercessione. Da questo episodio è nata la tradizione di benedire, nel giorno di San Biagio la gola dei fedeli appoggiandovi due candele incrociate.
A Monte San Biagio, in provincia di Latina, le gole sono invece benedette con olio d'oliva e vengono distribuiti dei pani dalla curiosa forma di dita. A Roma, la tradizione di distribuire pane ai fedeli il 3 febbraio, dà il nome alla chiesa di San Biagio alla Pagnotta, dove fino al quindicesimo secolo, era conservata la gola del santo che ora si trova nel tesoro di San Pietro.
Il pane e l'olio sanciscono, così come un altro episodio avvenuto sulla strada verso martirio, il legame di Biagio con il mondo contadino: una donna, cui un lupo aveva rubato l'unico porco, pregò il santo finchè il lupo pentito tornò sui suoi passi e restituì la preda. La contadina donò a Biagio la testa del maiale assieme ad una candela e il santo la pregò di offrirne una ogni anno a suo nome per avere prosperità.
La collocazione calendariale della festa, ossia al passaggio di stagione, la confidenza con gli animali, la presenza del fuoco simboleggiato dalla candela, quindi l'accenno alla purificazione collegano la ricorrenza di San Biagio ai riti agrari di lustrazione di fine inverno.
Il giorno precedente, il 2 febbraio, la chiesa cattolica ricorda la purificazione della Vergine Maria nella festa della Candelora. Nell'antica Roma tra gennaio e febbraio ricorrevano le feriae sementinae e le amburbaliae riti di purificazione dei campi dedicati alla dea Cerere.
Il maiale, che compare nell'aneddoto del porco rubato, è sacro proprio a Cerere, che sovrintendeva alla crescita delle messi, onorata in età arcaica con Tellus, il grembo terreno che custodisce il seme, come il ventre materno nutre l'embrione. Tellus e Cerere a Roma proteggevano i matrimoni e Biagio, in alcune regioni d'Italia era patrono dei fidanzati, prima di essere oscurato dal più famoso Valentino.
Molti sono i riti di benedizione e purificazione degli animali che accomunano Biagio al più famoso “collega” santo contadino Antonio Abate, ricordato il 17 gennaio. In Sicilia si benedice il bestiame passando sul giogo dell'animale un collare che era posto sulla statua del santo.

 


                             S. Biagio ordina al lupo di restiuire il maiale alla vedova povera  Sano di Pietro ( 1406 - 1481)

Nella cultura celtica invece il maiale è affine allo spirito del grano, che, secondo tradizione si incarna nell'ultimo covone mietuto e del quale si conservano alcuni chicchi per la semina successiva. Il primo giorno di febbraio, festa di Imbolc, parola che, tra i vari significati ha quello di ventre, si onora la dea Birgid, con bambole fatte di spighe intrecciate provenienti dall'ultimo covone del raccolto dell'anno precedente. Birgid fu cristianizzata come Santa Brigida, che la tradizione ritiene fosse la levatrice di Gesù. La vita, come il seme custodito da Tellus cresce, ma il germoglio ha bisogno della forza di Cerere per uscire dalla terra, ha bisogno della levatrice Brigida per non soffocare qualora restasse chiuso nel ventre. E chi altri rischiava di morire soffocato se non il ragazzo salvato dal vescovo Biagio, che ha estratto dalla sua gola, purificandola, la lisca di pesce che vi si era conficcata?

Le reliquie di San Biagio sono conservate a Maratea, in Lucania città di cui è patrono e dove approdarono, a causa di un naufragio, i pellegrini armeni diretti a Roma. Curiosamente, dall'urna e dalle colonne della chiesa costruita sopra un precedente tempio di Minerva, stilla un nettare chiamato Manna.
Ad Un santo “goloso” come Biagio, non può non riferirsi una leggenda legata ad uno dei dolci più famosi in Italia: il panettone. Si racconta che, un frate goloso non avendo resistito dallo sbocconcellare un panettone affidatogli da una pia donna, al momento di restituirglielo, guarda caso il 3 febbraio, trovò nella scatola un panettone addirittura più grande del primo. Da questo episodio è nata nel milanese la tradizione di mangiare, nel giorno di San Biagio proprio una fetta di panettone avanzato a Natale, come augurio di prosperità. Meglio se non si tratta di un nuovo panettone, ma proprio di una fetta avanzata, così come i chicchi di grano dell'ultimo covone, tornano a seminare la terra.



Nel giorno di Biagio



e poi...

G. Dumézil. La religione romana arcaica, Bur, 2001

A. Cattabiani, Calendario. Le feste, i miti, le leggende e i riti dell'anno. Mondadori, 2003

A. Cattabiani. Santi d'Italia,BUR, Milano 2004

R. Fattore, Feste pagane, Macro edizioni, Cesena, 2004

C. Miles, Storia del Natale, tra riti pagani e cristiani.Odoya, 2010.

M. Ponticello.I Pilastri dell'anno, il significato occulto del calendario, Arkeios, 2013.

http://www.famigliacristiana.it/articolo/perche-a-san-biagio-si-mangia-il-panettone.aspx




giovedì 31 dicembre 2015

Lo strano destino di chi nasce nella notte di Natale

Streghe al Sabba di L.R.Falero




La notte di Natale (e tutto il periodo tra la Vigilia e l'Epifania) è un tempo fuori dal Tempo, ed è perciò inevitabile che chi vede la luce (o meglio il buio) in questi giorni sia una creatura straordinaria.
In quasi tutte le regioni italiane, tradizione vuole che una bambina nata la notte della Vigilia, meglio se a mezzanotte in punto, sia destinata ad essere strega, mentre se a venire al mondo è un maschietto, sarà quasi sicuramente un lupo mannaro.
I giorni, o meglio le notti, immediatamente successivi al solstizio d'inverno sono popolati di creature magiche: è possibile individuare le streghe appostandosi ai crocicchi delle strade e appoggiando il mento ad una forca, o tra i rebbi di un tridente. Nella notte di Natale le streghe e i guaritori trasmettono il loro sapere e, se una donna vuole avere poteri magici, si deve sedere sopra l'altare maggiore poco prima della messa di mezzanotte.
Queste creature erano pericolose soprattutto per i bambini: nell'Italia centrale si evitava di lasciare i più piccoli soli in casa nella Notte Santa per timore che qualche strega li rapisse; per tenerla lontana, nel Piceno, si poneva dietro la porta una scopa di saggina capovolta.
Ad uscire di casa nelle notti più lunghe
dell'anno  si rischiava di incontrare un lupo mannaro.
Il Licantropo era una creatura, spesso rappresentata con coda e testa di animale, che si aggirava di notte vicino ai cimiteri. I medici antichi consideravano la Licantropia una malattia: i Lupi Mannari altro non erano che gli invasati: pallidi in viso, uscivano e vagavano a quattro zampe come i cani, tanto da avere le ginocchia sbucciate.
Per sfuggire al destino di essere strega o lupo mannaro (ma chi nasceva a Natale poteva anche trasformarsi in una tromba marina o diventare incantatore di serpi) bisognava essere marchiati col sangue: in Abruzzo si incideva una piccola croce sotto la pianta del piede del neonato con un ferro rovente o con una bacchetta di vite.
In Campania invece, si prescriveva di recidere un tralcio di vite e mentre questo bruciava da un'estremità, passarlo sul braccio destro del bambino disegnando una croce.
Non c'era rimedio invece per chi era stato concepito il 25 dicembre. In Veneto si credeva che avesse la stessa capacità della strega di mutare aspetto e trasformarsi in animale.

Per il folklore greco, chi nasceva a Natale aveva buone possibilità di diventare kallicantzaro: un bizzarro personaggio che, solo o in compagnia, usciva a far danno nel periodo natalizio. Secondo lo studioso greco Leone Allacci, vissuto nella seconda metà del 500, i kallicantzaroi (callicanzari secondo la dizione italiana) erano i bambini nati tra Natale e Capodanno,vittime di una specie di possessione demoniaca, che li spingeva ad uscire di casa invasati e ad aggredire i passanti.
Gli inquietanti, ma anche ridicoli callicanzari sono presenti, secondo modalità diverse nei racconti popolari greci fino ai giorni nostri. Potevano essere dei semplici sonnambuli, che si aggiravano di notte senza far male ad alcuno, ma più facilmente erano delle creature malvage che rapivano i bambini per succhiarne il sangue, oppure che si divertivano a gettare i viandanti nei burroni.
Vivevano organizzati in tribù, con a capo una specie di demone degradato, ma erano talmente pasticcioni e sgangherati da non riuscire a concludere alcunché, e così sciocchi da farsi ingannare facilmente. Si credeva che passassero l'intero anno a cercare di abbattere l'albero che sorreggeva il mondo, ma a Natale, presi da un irresistibile smania, salivano sulla terra per scoprire, una volta tornati negli inferi, che loro opera era vanificata e bisognava ricominciare da capo
Anche sull'aspetto fisico del callicanzaro le tradizioni non sono concordanti: generalmente era descritto come un ragazzino peloso, con gli occhi rossi, spesso con un fallo enorme. Aveva la capacità di trasformarsi in animale e di allungare gli arti a piacimento (quasi sempre le braccia, non siate maliziosi).
Per scongiurare che un bambino nato a Natale si trasformasse in Callicanzaro, si raccomandava di metterlo nel forno (spento) e chiedere: “pane o carne?” Se la risposta era "pane" veniva liberato, se invece era "carne" si ripeteva la domanda fino a che non avrebbe dato la risposta corretta cioè "pane". Oppure bisognava solleticare con la fiamma le piante dei piedi, così da bruciare gli artigli nascosti sotto la pelle.
Il Callicanzaro è probabilmente figlio di quelle maschere di animali che si indossavano durante le processioni licenziose di Capodanno. Avversate dalla chiesa come usanza pagana, erano a loro volta, un ricordo dei cortei in onore di Dioniso popolati di satiri e sileni
Sia strega, lupo o callicanzaro, chi è nato in questi giorni è una creatura dal destino oscuro.
Non, perché, come dice la vulgata, deve scontare la colpa di essere stato concepito in Quaresima, ossia in un periodo in cui la Chiesa predicava l'astinenza e neppure per l'aver in qualche modo usurpato un giorno che doveva essere destinato esclusivamente alla nascita del Cristo. Ma chi è nato in un momento di passaggio, non può che essere una creatura “di confine”, non appartenente né alla condizione naturale né a quella soprannaturale. Ma sarà un essere che, dietro la normalità, nasconderà qualità ultranaturali che ciclicamente torneranno a presentarsi.


...E poi

T.Braccini, La fata dai piedi di mula. Licantropi streghe e vampiri nell'oriente greco. Encyclomedia 2012.

E.Baldini, G. Bellosi, Tenebroso Natale. Il lato oscuro della Grande Festa. Laterza, 2012.

C. Miles, Storia del Natale, tra riti pagani e cristiani.Odoya, 2010.



Nel giorno di Silvestro, ultimo santo del calendario.





domenica 8 novembre 2015

Mundus Patet

L'Umbilicus urbis Romae, da molti identificata come l'entrata del Mundus


Novembre. Mese di passaggio, quando l'estate è finita e l'inverno ancora non è iniziato. Per i celti è tempo di Samhain, che introduce alla metà oscura dell'anno. Nella cultura cattolica sono giorni dedicati al ricordo dei defunti.
Presso quasi tutti i popoli, nei momenti di transizione, cade la barriera tra i due mondi: i morti possono tornare a visitarci. Sono periodi cruciali che mettono, se non spavento, almeno timore. Anche la festa di Halloween, ritenuta a torto un'americanata, nasconde, dietro la patina commerciale, risvolti inquietanti: le zucche intagliate e i dolcetti- scherzetti, ci riportano all'usanza contadina di accogliere le presenze, amate ma invadenti di ritorno dall'altro mondo.
Nell'antica Roma, il mondo dei vivi e quello dei morti entravano in contatto a febbraio durante le celebrazioni dei Feralia, ma anche nei tre giorni di Mundus patet.
Il Mundus era un sacello sotterraneo che veniva aperto il 24 agosto, il 5 ottobre e l'8 novembre. Non si sa bene dove si trovasse, perché le fonti sono contraddittorie e fanno confusione.
Plutarco chiama Mundus la fossa scavata da Romolo nel Comizio, all'incrocio fra Cardo e Decumano, dove, secondo l'uso etrusco alla fondazione della città vi aveva sepolto, come rito propiziatorio, le primizie di ogni cosa, mentre i suoi compagni vi gettarono un pugno di terra del loro paese d'origine.
Ovidio, nei Fasti, la colloca sul Palatino.
Il grammatico romano Festo, vissuto nel II secolo d. C., nel De verborum significatu, (un dizionario enciclopedico noiosissimo ma prezioso, perché raccoglie una serie di fonti sulla società e sugli usi religiosi romani), parla di un Mundus Cereris ossia di un tempio sotterraneo dedicato a Cerere, dea del frumento ma associata al mondo infero, in quanto custode dei fenomeni tellurici e sotterranei e, in qualità Grande Madre anche della fecondità. Era infatti l'equivalente romano di Demetra, madre di Persefone sposa del dio Ade, identificata dai romani con Proserpina.
Il Mundus doveva quindi trovarsi presso il tempio di Cerere, tanto più che un'iscrizione rinvenuta a Capua attesta l'esistenza di un Sacerdos Cerialis Mundialis.
Festo continua descrivendo il Mundus come speculare alla volta celeste che con essa faceva un tutt'uno, formando un'ideale sfera (interessante il parallelo che si può stabilire tra l'etimologia di Mundus e il termine sanscrito Mandala, che indica appunto la sfera, lo spazio sacro). Specifica poi che era un luogo consacrato agli Dei Mani, ossia alle anime dei defunti, destinato a restare sempre chiuso tranne che nei tre giorni indicati.
I giorni di Mundus Patet (il Mundus è aperto) erano dies religiosi, (portavano sfiga), perciò si sconsigliava di intraprendere qualsiasi attività sia laica che religiosa. Era considerato infausto combattere o convocare i comizi ma pure sposarsi o congiungersi alla moglie per fare figli. Tuttavia i tre giorni di Mundus Patet erano segnati sui calendari come comitiales, poiché il Senato si limitava a segnalare alcuni giorni come di cattivo auspicio, senza interferire con la dottrina ufficiale dei pontefici, non ponendo in sostanza alcun obbligo.
Secondo alcune interpretazioni, escluse però da dallo storico della religione romana Dumezil, la parola Mundus ha la stessa radice indoeuropea di utero o bocca e rimanda ai termini di “mondare” o “purificare”.
La cerimonia della sua apertura poteva forse avere un carattere iniziatico, quasi fosse un rito di creazione di una nuova vita collettiva, una specie di preparazione agli eventi del mese successivo .
Ma cosa accadeva di preciso all'apertura del Mundus?
Sempre da Festo, sappiamo che: occultae et abditae religioni deorum Manium essent, ueluti in lucem quamdam adducerentur et patefierent ossia che erano portati alla luce i segreti della religione degli dei Mani, su cosa vertessero in concreto questi segreti, l'autore non dice nulla.

Anche Macrobio nel V secolo, riportando nei Saturnalia una frase di Varrone, accenna ad un segreto deorum tristium et inferum, per poi lasciarci con un palmo di naso.
Spiega però che, essendo il tempio consacrato a Proserpina e a Dis Pater, il dio romano delle ricchezze, che può essere assimilato a Plutone (Da notare la stessa radice semantica tra Mundus e Mantus, la versione etrusca di Dis Pater) il rischio per gli uomini era essenzialmente quello di essere risucchiati nel mondo infero, quindi non era il caso di andare in battaglia quando le porte del regno di Plutone erano aperte.
Senza dubbio, il timore e la riverenza che i tre giorni di apertura del Mundus ispiravano ai romani, non era collegato ad una generica ricomparsa dei morti, quanto piuttosto alla conoscenza di alcuni segreti che, se non approcciati in maniera corretta, magari dai non iniziati, potevano rappresentare un serio pericolo.

E poi...

G. Dumézil. La religione romana arcaica, Bur, 2001
M. Ponticello.I Pilastri dell'anno, il significato occulto del calendario, Arkeios, 2013.
romanoimpero.com
Festo, 144-146 L
Macrobio, Saturnalia, I, 16, 17
C. Milani, Varia Linguistica, Educatt, 2009


Nel giorno di Giovanni Duns Scoto

domenica 21 giugno 2015

Le strane immagini delle pievi

Nel mese di maggio, dedicato alla Madonna, cercando qualcosa per ravvivare un po' il blog, ho trovato una foto dell'architrave della pieve dei Santi Vito e Modesto, a Corsignano in Toscana.
L'attuale edificio, pur con molti rimaneggiamenti, è da datarsi al XII - XIII secolo, ma le prime tracce risalgono all'VIII.
il fregio della facciata

Sulla facciata, proprio sopra alla porta di ingresso, c'è un fregio che raffigura una sirena a due code che mostra la vulva. Alla sua sinistra un'altra sirena suona la ribeca,uno strumento ad arco simile al liuto, mentre un drago pare sussurrarle qualcosa all'orecchio; a destra una danzatrice, con un braccio afferra per il collo un altro drago, che protende le fauci verso di lei, mentre con l'altro pare voler trattenere una compagna. 
Il nostro immaginario è abituato alla raffigurazione della sirena come un essere donna nella parte alta del corpo ma con la coda di pesce al posto delle gambe.
Ulisse e le Sirene, V secolo a.C
Nella letteratura classica però le sirene erano per metà donna e per metà uccello, ammaliavano le loro prede con il canto e le conducevano a morte. Le prime rappresentazioni delle sirene con la coda di pesce comparvero in raffigurazioni già tra il II secolo avanti Cristo e il II dopo mentre le prime testimonianze scritte le troviamo invece in un bestiario attribuito al monaco anglosassone Thomas di Cantiprè redatto a cavallo tra il VII e l'VIII secolo.
Tuttavia,anche nei bestiari medievali, le due iconografie continuarono a coesistere e le sirene erano spesso rappresentate come ibride di entrambe i generi.
Alberto Magno, il filosofo domenicano vissuto nel XIII secolo, le descrive, nel trattato de Animalibus, come creature con parte superiore del corpo di donna, le ali, la coda squamosa e i piedi d'aquila.
Nelle chiese medievali dell'Italia settentrionale già nel VII secolo venivano raffigurate sirene con la doppia coda di pesce per adattarle alla struttura dei capitelli.
I Padri della chiesa vedevano nella sirena un'allegoria della seduzione esercitata sul cristiano dalla cultura pagana. Solo il saggio cristiano, come scrive il discepolo di Ambrogio, san Massimo di Torino nel V secolo dopo Cristo, legato alla croce, come Ulisse lo era all'albero maestro della nave, poteva ascoltare il loro canto senza perdersi.
Con il passare dei secoli, le sirene divennero invece emblema del peccato di lussuria. I bestiari medievali rappresentano spesso la sirena bicaudata nell'atto di pettinarsi i lunghi capelli o di ammirarsi allo specchio, vezzo tipico delle prostitute.
Le sirene, siano esse alate o con la coda di pesce, hanno comunque una genealogia che le collega al canto: figlie di dio fluvuiale Acheloo e, a seconda degli autori, di Melpomene, la musa del canto o di Tersicore della danza, secondo il poeta latino Ovidio morirono suicide, dopo essere state umiliate dalle muse in una gara canora. Sempre il poeta latino dice che furono fedeli a Proserpina e nel corso dei secoli mantennero sempre un legame con il mondo ultraterreno, tanto che si credeva fossero le accompagnatrici delle anime nell'aldilà.
Ma perché era così letale ascoltare la voce sirene? Il pericolo non proveniva solo dalla loro carica erotica. Legate con ogni probabilità alla Grande Madre, attraverso il canto potevano ricondurre l'uomo, in un mondo infero, nell'utero primordiale di Gea da cui tutto ebbe inizio, cosa inconcepibile in una società patriarcale come quella greca.
Platone, nella Repubblica, descrivendo il viaggio del guerriero Er nell'aldilà immagina Ananke, la necessità come una filatrice che, ruotando il fuso, disegna il destino del mondo. Il fuso è formato da cerchi concentrici ognuno governato da una sirena che insieme cantano l'armonia del cosmo.
Ma tornando all'architrave della pieve di Corsignano, edificio cristiano sorto probabilmente in un bosco legato al culto dei divinità legate all'acqua, possiamo leggere nell'immagine dei draghi il Tempo che tutto produce e divora, mentre nel grembo ostentato della sirena il desiderio che infonde la vita. I ritmi sonori puri, ma inconsistenti diventano quindi carne grazie al desiderio sessuale.
la bifora con la cariatide
Sopra il fregio, a sostegno di una bifora ad M, simbolo della Vergine Maria, c'è una figura femminile, con una mano sul fianco e i seni scoperti, iconografia più adatta ad una divinità pagana che alla Madonna.
Si tratta solo di un “riciclo” di un'immagine legata a culti precristiani?
Anche le Sirene, come Maria, erano vergini e stando al poeta greco Esiodo, furono punite da Afrodite che non sopportava la loro scelta di castità per dedicarsi ad una conoscenza più grande; curiosamente una miniatura austriaca del XV secolo raffigura la Madonna proprio come Sirena.
La vulva esposta dalla creatura a due code del fregio è simbolo di fecondità. Si tratterebbe quindi di una fecondità solamente spirituale?
Sant'Agostino, commentando il salmo 57, scrive: Alienati sunt peccatores a vulva, ossia i peccatori si sono estraniati dalla vulva che ha partorito il Cristo, cioè dalla Verità. La vulva di Maria è immagine della Porta dei Cielo, come conferma il vescovo ortodosso Andrea di Creta vissuto nel 700 commentando il passo biblico del profeta Ezechiele: E l’Eterno mi disse: "Questa porta sarà chiusa, essa non s’aprirà, e nessuno entrerà per essa, poiché per essa è entrato l’Eterno, l’Iddio d’Israele.
Una simmetria con la Sirena a due code del fregio si può leggere anche nella Madonna del Parto che Piero della Francesca, affrescò a metà del 1400: due angeli sostengono i lembi di una tenda che, come un sipario, si apre a mostrare la Madonna incinta. All'apertura della tenda corrisponde la fessura sulla veste di Maria, il Tabernacolo Santo di cui parla il profeta Ezechiele nella Bibbia, del tutto simile alla vulva esposta dalla sirena bicaudata del fregio.
Ma Maria è anche immagine della Chiesa che nel corso della storia fu santa e peccatrice, tanto da essere spesso definita casta meretrix. Quindi l'immagine della sirena che, come abbiamo visto, aveva spesso gli attributi della prostituta, non è certo fuori luogo.
Se guardiamo poi la genealogia di Cristo, con cui Matteo fa iniziare il suo Vangelo, scorriamo un insolito elenco di nomi e parentele: stranamente compaiono quattro donne che, nel mondo ebraico, dove la filiazione si trasmetteva in maschile, difficilmente sarebbero state citate. Queste donne poi, se non sono prostitute, conducono comunque una vita sessuale “irregolare”: Tamara  si finge prostituta,  Ruth è una seduttrice, poi leggiamo della moglie di Davide, Betsabea, ma soprattutto di Raab. Raab il cui nome in ebraico significa Dio ha aperto o Dio ha allargato (come larghe sono le code della sirena del fregio) è il nome della prostituta che a Gerico apre le porte e accoglie le truppe di Isarele. Come mai L'Evangelista non si preoccupa di nascondere queste scandalose origini di Cristo? Forse per dare prova della veridicità del testo sacro? O piuttosto per dire che Dio non disdegna la natura umana, nemmeno nelle sue debolezze, anzi ne fa uno strumento di salvezza. Non mortifica la fisicità tanto da incarnarsi in un corpo di uomo. Che sia questo il segreto che cela il canto delle sirene?



E poi...

A. Cattabiani. Acquario, Mondadori, 2002
A. Beretta, E Broli. Peccato non farlo, Piemme, 2004
N. Valentini. L'inquietante femminile, Sometti, 2011
V. Sgarbi, Piene di Grazia, Bompiani, 2011
http://www.angolohermes.com/Luoghi/Toscana/Pienza/Corsignano.html



Nel giorno del Solstizio d'Estate 2015


giovedì 5 febbraio 2015

Inizia un nuovo anno. Ma quando?



Ricomincia l'anno e anche il blog, un po' trascurato ultimamente. Sebbene questi siano appunti buttati giù a mano durante le crisi di emicrania e poi riordinati al pc, cercherò di essere un po' più costante.
Il capodanno è passato da oltre un mese, l'Uroboro il serpente del Tempo che trascorrendo si rinnova, torna a mordersi la cosa e inizia un nuovo ciclo. Ma quando è davvero il punto di rottura e coincidenza insieme?
Il Celti lo individuavano al 31 ottobre, nella notte di Samhain.
I romani iniziarono a festeggiarlo alle Calende di Gennaio dal II secolo a.C., quando, a partire dal 153 a.C. segnava la data di insediamento dei due consoli, ma secondo la tradizione fu Numa Pompilio che, riformando l'arcaico Calendario di Romolo, sostituì l'antico Capodanno che cadeva a Marzo.
Il mese di Gennaio a Roma era dedicato al dio Giano, il cui nome deriva da Ianua la porta e, sebbene l'etimologia sia diversa, non si può non notare l'assonanza con il nome di Giovanni. Ma, stando a quanto dice René Guenon, anche le assonanze non sono da trascurare ed infatti, la liturgia cattolica, ricorda proprio a ridosso dei solstizi i due San Giovanni: il Battista al 24 giugno e l'Evangelista al 27 dicembre.
Il Capodanno primaverile continuò però ad essere festeggiato nei secoli successivi alla caduta dell'impero Romano nei vari stati della penisola italiana. Firenze, fino al 1749 faceva iniziare l'anno il giorno dell'Incarnazione, il 25 marzo, Venezia il primo di marzo, mentre a Milano, fino al 1797, il capodanno era il 25 dicembre.
Ma tornando all'antica Roma, il calendario attribuito a Numa Pompilio, che in realtà dovrebbe risalire all'epoca dei Tarquini, aggiungeva ai consueti dieci altri due mesi per armonizzare la durata del mese lunare, con il ciclo solare. Probabilmente questi mesi sarebbero stati proprio Gennaio e Febbraio, ma non è certo. Alcuni studiosi, ad esempio Carandini, sostengono che ciò non sarebbe possibile, in quanto in questo periodo si celebravano feste antichissime che non potevano certo venire spostate e forse ad essere aggiunti furono mesi privi di importanti ricorrenze, come settembre e novembre.
Però il mese lunare non poteva essere una frazione esatta dell'anno solare: restava una differenza di 10 giorni e un quarto che venne recuperato con l'inserimento ogni due anni di 22 o 23 giorni alternativamente, che sommati agli ultimi 5 giorni di febbraio, andavano a formare il mese intercalare, inserito prima della lunazione primaverile.

Ma anche questa correzione non fu sufficiente a far quadrare i conti. Il compito di gestire le intercalazioni era affidato ai pontefici, che spesso allungavano o accorciavano il tempo per prolungare le cariche politiche. Prima della riforma di Giulio Cesare nel 46, la confusione era tale che il Solstizio d'inverno cadeva ad ottobre.
Cesare, sotto la guida dell'astronomo Sosigene, decise di abbandonare il calendario lunare a favore di quello solare degli Egizi, mantenne l'anno di dodici mesi, aggiungendo un giorno ad aprile, giugno, settembre e novembre e due a gennaio, agosto e dicembre.
Restava la differenza di un quarto di giorno, che veniva recuperato ogni quattro anni con l'inserimento di un giorno supplementare sei giorni prima delle calende di marzo, il mese di febbraio aveva così due volte il sesto giorno e l'anno veniva chiamato bisestile.
Tuttavia il calendario odierno non è precisamente quello ideato da Giulio Cesare, ma si basa sulla riforma di papa Gregorio XIII che corresse le imperfezioni della riforma Giuliana. Infatti, ogni anno durava circa 11 minuti in più rispetto al corso del sole, minuti che sommandosi, andavano a formare un giorno in più ogni 128 anni così che equinozi e solstizi erano “retrocessi” di alcuni giorni.
Questa sfasatura venne corretta nel 1582, riportando l'equinozio di primavera al 21 marzo, togliendo alcuni giorni e stabilendo che tra gli anni secolari fossero bisestili solo quelli divisibili per 400.
In molti calendari è presente una differenza tra i cicli astrali che conta 11-12 giorni, il cosiddetto dodekameron, un periodo di tempo fuori dal tempo, che, a seconda della tradizione è collocato in vari punti dell'anno.
Le più importanti feste celtiche cadevano a 40 giorni da solstizi ed equinozi, il termine 40 torna anche nel calendario giudeo come quello cristiano; la Quaresima tempo di digiuno e purificazione dura appunto 40 giorni e 40 giorni passano dalla Pasqua all'Ascensione. Pare esserci quindi un substrato comune a molte culture indoeuropee, che divide l'anno in cicli di 40 giorni fino ad un totale di 320.
I giorni che rimanevano al completamento del ciclo solare erano quindi un tempo fuori dal tempo, dedicato a rituali di purificazione e rigenerazione.
Se guardiamo ai tempi nostri, sebbene “sbiadite” dalla modernità e dal consumismo, le maggiori feste da Halloween che deriva dall'antico Samhain, celtico e che in alcune zone dell'Italia si fonde con la ricorrenza di San Martino, alla grande Festa che va dal solstizio invernale all'Epifania inglobando il capodanno civile, al carnevale in primavera, presentano molte similitudini. In primo luogo la durata di 12 giorni che accomuna il periodo del Samhain autunnale alle feste natalizie e poi le maschere, i fuochi, l'evocazione dei defunti tutti elementi che ricorrono seppure non concomitanti, in questi giorni che interrompono lo scorrere del tempo.
Ma tornando nuovamente al calendario romano arcaico, quello in uso prima della riforma di Numa Pompilio sappiamo che era composto di dieci mesi dalla durata variabile e l'anno, secondo Macrobio durava 304 giorni, mentre per Plutarco 360. Come mai questa differenza proprio di 60 giorni? Probabilmente ci si riferisce a due periodi diversi.
Lo studioso iranico Gangadar Tilak vissuto nella seconda metà dell'ottocento, esaminò i Veda, ossia la letteratura antica indoeuropea che assieme all'Avesta iranica, parlava di una dimora nelle regioni subpolari degli antichi popoli indoeuropei antenati anche dei romani. Il loro anno era composto di dieci mesi in quanto non erano computati i due mesi bui della notte polare. Quando poi migrarono a sud, in zone dai climi più miti aggiunsero i due mesi all'antico calendario.
Quindi i mesi di gennaio e febbraio sono sentiti ancora ai tempi nostri come una lunga alba in preparazione al nuovo anno, dove si innestano riti di vario tipo. Purificatori come la Candelora e la Quaresima, orgiastici come in Carnevale o di buon auspicio come la festa di Sant'Antonio. Tutte cerimonie con un substrato comune: mascherate, pratiche di magia imitativa, abbattimento delle barriere sessuali e sociali in un clima orgiastico, formazione di compagnie purificatrici e fecondanti che attuavano questue e denunciavano pubblicamente le mancanze della società. Un Tempo fuori dal tempo un momento di cesura che prelude alla rinascita.



...e poi

E.Baldini, G. Bellosi, Tenebroso Natale. Il lato oscuro della Grande Festa. Laterza, 2012
A. Cattabiani, Calendario. Le feste, i miti, le leggende e i riti dell'anno. Mondadori, 2003
C. Miles, Storia del Natale, tra riti pagani e cristiani.Odoya, 2010.


martedì 8 aprile 2014

La Papessa, quando la femminilità è eversiva



La Papessa dei Tarocchi di Teodoro Dotti, Milano 1845



E' un'immagine strana, ibrida, inquietante.
Indubbiamente affascina: una donna che non è nuda, ma indossa paramenti sontuosi e assolutamente maschili; non ha un bambino in braccio ma tiene un libro aperto sul ventre.
Cosa ci può essere di più eversivo di una donna che non è amante, non è madre ma possiede la Vera Sapienza?
L'archetipo è così disturbante da non comparire nemmeno in tutti i mazzi storici ed ha suggerito nei secoli, diverse interpretazioni sia iconografiche che simboliche.
La Papessa del mazzo Visconti-Sforza
Nei mazzi milanesi Visconti -Sforza risalenti al XV secolo, la Papessa è presentata di fronte: ieratica e quasi affogata nell'oro nella versione di Yale, vestita con saio monacale, una tiara sul capo, una croce nella mano destra e libro chiuso nella sinistra nel mazzo Pierpont Morgan. Benché entrambe le carte non riportino alcuna indicazione didascalica, probabilmente raffigurano la Fede, come si può dedurre dalla presenza di altre carte raffiguranti le Virtù, ma soprattutto dal raffronto col Monocromo di Giotto nella cappella degli Scrovegni a Padova.
La Fede nell'affresco di Giotto
Nell'affresco patavino, la Fede regge un cartiglio e una croce, ma soprattutto emana la stessa severità e mistero della Papessa dei Tarocchi. Escluso che si tratti della leggendaria Papessa Giovanna, che in genere è raffigurata evidenziando i tratti femminili come i capelli lunghi oppure con il figlio neonato in braccio, la studiosa Gertrude Moakly, partendo dal fatto che i Visconti usavano raffigurarsi nelle Carte di Corte, vede nella Papessa il ritratto di Sorella Manfreda, una donna della famiglia, proclamata Papa da una setta eretica e condannata al rogo nel 1300 dal pontefice Urbano IV.
Manfreda, indossa il saio dell'ordine delle Umiliate, un movimento fondato da Sorella Guglielmina, che, ispirandosi alle teorie del monaco Gioacchino da Fiore, profetizzava l'avvento imminente del regno dello Spirito Santo. Guglielmina, le cui idee si diffusero proprio a Milano, si riteneva l'incarnazione dello Spirito Santo, mentre Manfreda si fece rendere gli onori da Pontefice nella Pasqua del 1300, dopo aver celebrato la Messa.
Nei mazzi successivi assistiamo ad un'evoluzione della figura della Papessa o in alcuni casi alla sua sostituzione.
Nel Tarocchino dell'incisore bolognese Giuseppe Maria Mitelli, che risale alla seconda metà del seicento, le prime 4 carte ossia il Papa, la Papessa, l'Imperatore e l'Imperatrice, sono sostituite con con due Papi e due Imperatori. L'idea fu forse dello stesso Mitelli, per non creare problemi con lo Stato Pontificio cui era sottoposta Bologna, visto che i mazzi precedenti riportavano le quattro figure classiche. Comunque, successivamente, anche i Papi e gli Imperatori furono rimpiazzati da quattro Mori.
Nelle Minchiate, i mazzi da gioco fiorentini ( fino al Settecento, i Tarocchi non erano usati a scopo divinatorio, ma ludico, per giochi di corte o da osteria) tutte le prime cinque carte sono chiamate Papa, la seconda, che corrisponderebbe alla Papessa era nominata Granduca. In Sicilia, dove pure si era diffuso il gioco dei Tarocchi dalla fine del Seicento, la Papessa fu sostituita dalla virtù della Costanza.
Nei mazzi svizzeri, che pure si ispirarono all'iconografia del tarocco Italiano, forse per non infastidire i giocatori di fede cattolica, le carte del Papa e della Papessa furono sostituite con Giove e Giunone. Interessante notare come la figura di Giunone indica il Cielo e la Terra quasi volesse fare da tramite tra le due dimensioni.
La Papessa dei Tarocchi di Marsiglia di Jodorowskij
L'immagine più comune della Papessa, ci arriva dalle carte dette di Marsiglia. Senza dilungarci troppo, sappiamo che i mazzi di Tarocchi più famosi non furono originari di questa città, dato che molte fabbriche, sia in Francia che in Svizzera, producevano mazzi di carte ispirandosi ai modelli italiani. Furono chiamati Tarocchi Marsigliesi nel1930, quando la ditta Grimaud produsse la riedizione di un mazzo che fino ad allora era chiamato Tarocco Italiano. Il prototipo del cosiddetto Tarocco di Marsiglia, è probabilmente il Foglio Cary: un foglio non tagliato raffigurante gli Arcani Maggiori, conservato a Milano, risalente agli anni tra la fine del Cinquecento e l'inizio del Seicento, che nell'iconografia di alcune carte si discosta parecchio dal precedente modello Visconteo.
La Papessa in quasi tutte le versioni dei Tarocchi di Marsiglia, è assisa sul trono, in posizione quasi frontale, porta sul capo una tiara e veste pesanti paramenti che la fanno apparire chiusa e ieratica; dietro di lei un velo di color del Cielo. Lo studioso Jodorowskij che ha cercato di ricostruire un improbabile primo mazzo originale dei Tarocchi Marsiglisi, ha posto a fianco della Papessa un uovo, a ricordare come questa strana figura femminile sia uno scrigno pronto ad aprirsi, ma non ancora maturo.
Il velo dietro alla figura è immagine del mondo fenomenico, dove si proiettano le idee e i misteri ultimi che l'occhio umano riesce solo ad intuire in forme cangianti. E' un velo che deve essere sollevato per avere accesso alle realtà soprannaturale.
Nei mazzi più diffusi: Marsiglia, Wirth, Tarocchi italiani di area Milanese - Piemontese, la Papessa è vestita con una tunica bianca o blu scuro; il manto color porpora simboleggia le aspirazioni più elevate dello spirito e i bordi dorati rimandano alla Vera Religione, alla Fede che si rivolge non ai credenti ciechi, ma ai pensatori che aspirano ad una rigenerazione spirituale.
Quando la svolta occultistica iniziata nel Settecento, ha fatto delle carte dei Tarocchi uno strumento di divinazione, la Papessa viene rappresentata come una sacerdotessa.
Osvald Wirth, nel suo mazzo cabalistico ideato agli inizi del Novecento, la raffigura abbigliata di pesanti paramenti con una falce di Luna sulla tiara, due chiavi nella mano e un libro chiuso che, sulla copertina, ha l'immagine del Tao. Il cuscino su cui posa i piedi è lo stesso che compare nell'iconografia di Cassiopea, la regina nera, sovrana della sfera celeste ed è l'infinitesima parte di ciò che possiamo apprendere della realtà ultima, accessibile grazie alle chiavi e alla capacità di sollevare il velo delle apparenze che occulta il volto della Papessa. La falce di Luna, tipica nell'iconografia di Iside e della conoscenza e sensibilità femminile, insieme alle melagrane, attributo di un'altra grande divinità femminile, Proserpina, sono raffigurati nella Papessa dei Tarocchi di Rider Waite, anche questi creati agli inizi del Novecento.
Sebbene, sostituiti i paramenti papali con quelli da sacerdotessa, l'immagine perda molto della sua carica eversiva, porta sempre con sé parecchi simboli che sono stati rielaborati nelle versioni occultistiche ottocentesche.
La Papessa rappresenta di sicuro la Fede e la Religione, ma una religione non codificata, non mediata, all'apparenza sacrilega, tanto che alcune incisioni di ambito protestante usano proprio l'immagine di una donna
Meretrice di Babilonia, da una Bibbia luterana 1534
abbigliata da Papa per rappresentare la meretrice di Babilonia dell'Apocalisse, ossia, la Chiesa Cattolica corrotta. La conoscenza esoterica però è di per sé eversiva ed eretica: attinge direttamente al mondo delle potenze senza bisogno di intermediari.
Una fede che va al di fuori dei canali tradizionali, che sfida i vincoli dell'ortodossia fa paura perché imbocca strade che sembrano rischiose e oscure in quanto non comprese: nelle novelle de Il castello dei destini incrociati, la raccolta di racconti che Calvino scrisse ispirandosi alle carte dei Tarocchi, la Papessa rimanda sempre a culti strani, notturni, talvolta pericolosi. Se però si è veri credenti e non creduloni, allora ci si potrà accostare agli insegnamenti della Papessa senza timore, perché si comprende che il suo lato buio altro non è che l'indispensabile contraltare della Luce.


e poi...
C. Gatto Trocchi, I Tarocchi, Newton, 1995
G. Berti, Storia dei Tarocchi,Mondadori, 2007
A. Jodorowsky, M. Costa, La via dei Tarocchi, Feltrinelli, 2004
O.Wirth, I Tarocchi, Edizioni Mediterranee, 1990
I. Calvino, Il Castello dei destini incrociati, Mondadori, 1994



giovedì 10 ottobre 2013

L'Appeso o il senso del tempo

l'Appeso del mazzo Visconti -Sforza
Autunno: fine del ciclo annuale. Si bruciano le stoppie, si immagazzinano le scorte, si ara la terra pronta per una nuova semina, è tempo di contrazione e meditazione.
Il sole, nel suo cammino lungo l'eclittica, che come un pendolo disegna il perpetuarsi delle stagioni, ricorda, agli equinozi, quando il giorno e la notte sono in equilibrio, la posizione verticale di un impiccato. E proprio un impiccato vediamo sulla dodicesima lama dei tarocchi, la più inquietante dell'intero mazzo: un uomo a testa in giù, appeso per una gamba con le mani legate dietro la schiena.
Storicamente rappresenta la pena che era riservata ai traditori (fonti ricordano un setaiolo appeso per un piede perché aveva rivelato i segreti della sua arte ad una città straniera) e ai debitori.
Nella maggior parte dei mazzi, sta appiccato per la gamba destra, mentre la sinistra è piegata all'indietro, a formare una croce. La posizione delle gambe è la stessa che si vede nella carta dell'imperatore (anche se qui è la destra ad essere ripiegata in avanti) e che ritorna figura femminile incorniciata nell'ultima lama, il Mondo.
Sebbene rappresenti un supplizio, l'immagine non dà un'idea di morte, e a guardarla bene, non suggerisce nemmeno staticità: la figura dell'impiccato, oscillando come un pendolo avanti e indietro, raggiunge la sua velocità massima proprio quando è in posizione verticale.
Nella mitologia greca sono diversi i personaggi, anche divinità, che morirono impiccati: Arianna, Erigone, Elena, persino Artemide, venerata come Impiccata a Knodylea in Arcadia, mentre nel mondo celtico fu Odino a restare appeso ad un albero per nove notti, ferito dalla sua stessa lancia. Sono rappresentazioni che alludono ai cicli della natura e al suo continuo rinnovarsi: il supplizio dell'Appeso quindi non può che rimandarci ad una morte simbolica, ad una fine della materia, che però prelude allo splendore dello spirito. In uno dei primi mazzi di tarocchi, il Visconti- sforza che risale al XV secolo, il personaggio impiccato indossa pantaloni verdi, colore che allude alla vegetazione; invece, nel famoso mazzo di Wirth, dell'inizio del Novecento, tiene sotto le braccia due borse dalle quali escono monete d'oro e la giubba, con cui è vestito, alterna i colori rosso e bianco.
l'Appeso di Wirth
Il rosso rappresenta la Fede che deve essere vigile, attiva, per scegliere, (ed in effetti in autunno, una volta immagazzinate le riserve, si scelgono i semi per il nuovo raccolto), ma anche pronta all'accoglienza come suggerisce il colore bianco "verginale" come vergine è la terra che sta per essere fecondata.
Le monete, che cadono dalle borse o dalle tasche dell'Appeso, alludono allo spogliarsi dei beni materiali, per arrivare alla perfezione spirituale; l'espressione sorridente del personaggio e gli occhi aperti ci dicono che non siamo di fronte ad un supplizio inferto, ma ad una rinuncia volontaria, ad un'accettazione serena. L'Appeso è quindi il mistico (nel mazzo novecentesco di Rider - Waite ha l'Aureola) che si spoglia dei beni materiali (il denaro) per giungere ad una vita più alta.
L'Appeso Rider- Waite
Non a caso nel segno equinoziale della Bilancia, abbiamo l'esaltazione di Saturno, pianeta che invita a eliminare il superfluo per contemplare la luce spirituale.
Chi perde la sua vita la Salverà diceva il Cristo.
L'Appeso sempre nel mazzo Rider - Waite, pende da un albero a forma di croce, adornato da foglie d'edera, pianta sacra a Dioniso, divinità greca che ha conosciuto la morte e la risurrezione.
Proprio agli equinozi, il sole passa per un punto che unisce le orbite del coluro equinoziale, dell'eclittica, dell'orizzonte e dell'equatore celeste che, come come ricorda Dante nel Paradiso, si intersecano formando tre croci. Ma qui, a differenza di quello che avviene in Primavera, il sole passando nell'emisfero meridionale è crocifisso a testa in giù, scende agli inferi.
E' il dio che muore, come Dioniso o il Cristo, per rinascere a primavera. La liturgia cattolica, pur celebrando la Passione del Signore a ridosso dell'equinozio primaverile, a settembre ricorda la crocifissione con due ricorrenze: l'esaltazione della Croce e la Madonna Addolorata.
Torniamo all'Appeso dei tarocchi: è immobile, ma come abbiamo visto si tratta di un'immobilità apparente, che in realtà esprime la velocità massima. Le mani, simbolo dell'azione, sono legate dietro la schiena, come legata e anche la gamba destra, la sinistra invece, che corrisponde alla parte più irrazionale, la meno soggetta al contingente, è libera.
Secondo Guenon, l'ordine celeste, spirituale, gira al contrario rispetto a quello materiale e terrestre. L'Appeso, con la sua posizione capovolta, ricorda all'aspirante mistico che solo annientando se stesso, in una morte apparente, può attingere alla più alta conoscenza mentre l'immobilità della materia corrisponde alla massima attività dello spirito.
Il seme può germogliare solo morendo, come alludono i due alberi ai lati della figura che sembrano avere le chiome verso il basso, nel cuore della terra.
Non è affatto un percorso facile quello del mistico: nei Tarocchi, la lama dell'Appeso è preceduta dalla Forza. Bisogna domare i propri demoni, se si vuole intraprendere il cammino, essere decisi nell'invertire la rotta per precipitare in una morte simbolica come il successivo Arcano Senza Nome
Una volta trovata la strada è necessario perseverare rigorosi; un passo dopo l'altro il seme inizia a dividersi in cellule, con la precisione della Temperanza. Ma per dar vita ad un nuovo organismo occorre anche una forza primigenia, ctonia, ed ecco apparire l'immagine del Diavolo, che dà alla piantina il nutrimento per sopravvivere, rafforzarsi bucare la terra, rappresentata dalla Torre scoperchiata della carta numero sedici, ed uscire finalmente ad ammirar Le Stelle.



e poi...

G. Berti, Storia dei Tarocchi,Mondadori, 2007
C. Gatto Trocchi, I Tarocchi, Newton, 1995
A. Jodorowsky, M. Costa, La via dei Tarocchi, Feltrinelli, 2004
O.Wirth, I Tarocchi, Edizioni Mediterranee, 1990
R. Guénon, Simboli della Scienza sacra, Gli Adelphi, 1990
A. Cattabiani, Calendario, Mondadori 2003